Masaniello e Garibaldi 3
Per i garibaldesi il bidet trovato nelle case di Palermo
era “un oggetto di forma ovale di uso sconosciuto”
di Vincenzo Giardino ©
[ parte terza e ultima ]
Arrivati i piemontesi a Palermo cominciarono a saccheggiare le case di tutti quelli che non digerivano l’idea dell’Italia unita. Quando saccheggiavano le case degli aristocratici, gli ufficiali piemontesi erano tenuti a redigere un inventario. Un giorno, un ufficiale piemontese che stava facendo l’elenco degli oggetti in una casa nobile palermitana, s’imbatté in una specie di vaso in ceramica che non aveva mai visto prima di allora e si limitò a scrivere “oggetto di forma ovale di uso sconosciuto”. Quell’oggetto era un bidet! Stessa cosa per quello trovato nella reggia di Caserta, con una piccola differenza nella descrizione: “oggetto a forma di chitarra di uso sconosciuto”.
I piemontesi del 1860 non conoscevano il bidet, uno dei principali strumenti d’igiene della persona! A questi fetentoni ignoranti fu concesso di depredare e mortificare uno dei più bei regni d’Europa e, chissà, se tra quegli ufficiali non c’era pure qualche antenato degli Agnelli che gli venne l’idea di suggerire ai nipoti dove prendere la manodopera per la Fiat.
Ritornando a Garibaldi, immaginate la scena per farlo salire a cavallo con tutti gli acciacchi che aveva. Dicono che ogni volta che doveva salirci c’era quel ruffiano di Nino Bixio che gli prestava la schiena per fare da sgabello. Garibaldi era obbligato a farsi vedere a cavallo perché avevano già dipinto i quadri e che figura avrebbe fatto con il popolo se si accorgevano che non ce la faceva manco a salire sulla sella?
Comunque i Mille, che nel frattempo erano diventati molti di più, si incamminarono per la seconda battaglia a Milazzo che come abbiamo già detto fu vinta da Garibaldi. Dopo la battaglia, a Garibaldi arrivò la notizia di una rivolta popolare a Bronte, una cittadina di montagna vicino Catania. Garibaldi comandò a Nino Bixio di andare e sistemare la faccenda subito subito.
Dovete sapere che il territorio di Bronte, all’epoca, era sotto il controllo dei discendenti di Nelson, quel fetente inglese a cui avevano regalato il castello che esiste ancora oggi. Oltre al castello, ovviamente, gli avevano concesso anche un bel pezzo di territorio e i villani che vi abitavano erano sotto la sua baronia e quella dei sui discendenti. Quei poveri villani si rivoltarono proprio quando capirono che Garibaldi li aveva fottuti e quindi si ribellarono ai nobili del paese.
Quella carogna di Nino Bixio, quando arrivò sul posto, giustiziò sommariamente i primi che gli capitarono e, tra questi, un povero demente inerme che aveva avuto l’ardire di suonare una trombetta di latta mentre lui arrivava con il gruppo di garibaldini. L’esecuzione fu un’azione di riverenza verso l’Inghilterra e di esempio a chi si fosse azzardato a pensare qualunque forma di ribellione. I cadaveri furono esposti per diversi giorni prima che venissero sepolti.
In Sicilia il popolo subì con Garibaldi la peggiore dittatura della sua storia. In quel periodo Garibaldi veniva definito “dittatore”. Embè! Mussolini paragonato a lui era un liberale. Dopo aver fatto quella schifezza, Nino Bixio si affrettò a raggiungere Garibaldi che si dirigeva a Messina per attraversare lo Stretto e continuare la conquista del Sud. Ebbero un poco di difficoltà perché in Calabria c’era una buona parte dell’esercito borbonico ancora fedele; ma che più passavano i giorni, più si assottigliava.
Arrivato in Calabria fu cosa facile incamminarsi verso Napoli, visti i pochi ostacoli che opponeva l’esercito borbonico. Entrò a Napoli trionfante dove lo aspettava più o meno la stessa festa che gli fecero a Marsala: spaghetti alle vongole, mozzarella di bufala, pizza (non si chiamava ancora Margherita), sfogliatelle, babà e vino di Gragnano. I guappi della camorra avevano già preparato tutto e nessun napoletano si azzardò a contestare.
Dato che Garibaldi sotto sotto era più fedele a Mazzini che a Cavour, aveva in testa di conquistare Roma facendo la guerra alla Chiesa. Ma lui non sapeva una cosa molto importante: in quel periodo la Francia di Napoleone III giocava con due mazzi di carte; un mazzo era per appoggiare l’Italia unita, l’altro mazzo era per proteggere lo Stato Pontificio.
Dato che Napoleone III si era già incazzato perché gli italiani avevano tolto dei territori al papa, chiamò Vittorio Emanuele II e gli fece un cazziatone: «Vittò ora basta! Devi dire a quella mezza tacca di Garibaldi che non deve più rompere le uova, sennò faccio un macello e l’Italia me la piglio io». Vittorio Emanuele II, mortificato, promise a Napoleone III che avrebbe provveduto personalmente e quindi fece sapere subito a Garibaldi che gli fissava un appuntamento a Teano.
Quando si incontrarono a Teano i due non scesero neanche da cavallo e, a quanto dicono, Vittorio Emanuele II non invitò Garibaldi neanche a prendere un caffè. Subito gli disse con autorità (ormai era il re d’Italia): «Caro Garibaldi il tuo contratto a termine è scaduto e poi visto che hai una certa età è meglio che ti vai a riposare un poco a Caprera; se ti comporti bene ti faccio anche diventare deputato con lo stipendio fisso e la pensione». Cosa poteva rispondere Garibaldi? Un poco deluso per avergli impedito di arrivare a Roma, rispose: «Obbedisco!».
Poco tempo dopo questo episodio, si costituì ufficialmente il regno unito d’Italia con capitale Torino che fu anche sede del primo parlamento italiano rappresentato solo da deputati del Nord. In concreto, l’Italia non era ancora unita come… non lo sarebbe stata dopo.
Mazzini non aveva digerito che il re aveva impedito a Garibaldi di conquistare Roma e convinse il generale a riorganizzare una spedizione che partisse dalla Sicilia, dove tutti gli aristocratici gli volevano bene per aver affogato le rivolte dei villani siculi. Nel 1862 Garibaldi andò in Sicilia e organizzò una spedizione per arrivare a Roma ma, stavolta, trovò l’opposizione dell’esercito piemontese che lo fermò in Aspromonte.
Sembra che un soldato che lo aveva sotto mira, incitato da un tenete piemontese che gli ordinava «spara! spara!», si sarebbe fatto prendere dall’emozione nel puntare il grande generale. Sbagliò la mira e lo colpì al piede e alla coscia. Garibaldi già mezzo ammaccato dai reumatismi cadde a terra. Questa spedizione fallì miseramente per mano dei suoi stessi alleati.
Roma fu conquistata (conquistata per modo di dire!) più tardi, nel 1870, non dai garibaldini ma dall’esercito piemontese. Fecero appena appena un buco con un colpo di cannone, la breccia di Porta Pia, per spaventare le guardie svizzere e convincere il papa Pio IX a un accordo. Vittorio Emanuele II, che voleva fortemente Roma capitale del regno d’Italia, convinse Pio IX: «Santità, dovete scusare per il danno che vi abbiamo fatto nel muro; ma se Voi aprivate la porta era tutto più facile, comunque non Vi preoccupate che appena appaltiamo i lavori lo facciamo aggiustare. Per quanto riguarda il Vostro potere, certo che qualche territorio ce lo dovete lasciare, ma state tranquillo che in Italia comanderete anche Voi».
«Ora facciamo diventare Roma capitale e ci portiamo anche il parlamento, in modo che quando dovete rimproverare qualche deputato o qualche senatore ce lo avete a due passi da San Pietro. Qualche cosa di soldi Ve la facciamo avere con l’8 per mille che pagheranno gli italiani e, in futuro, Vi prometto che non pagherete neanche l’ICI sugli immobili di Vostra proprietà». Manco a dirlo il papa Pio IX si accordò subito subito… tanto lo sapeva che qualche papa successivo avrebbe fatto altri patti (Patti Lateranensi).
Nel frattempo Garibaldi era diventato deputato e si era pure sposato una contessina molto più giovane di lui che le malelingue dicono gli abbia fatto un sacco di corna. Così racconta il Popolo sull’Unità d’Italia!
[ … Fine … ]
Il “fattariello” dell’unità d’Italia – Parte prima
Bisnonni comunisti infiltrati fra i Mille – Parte seconda
I garibaldesi non conoscono il bidet – Parte terza
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