Garibaldi ritorna in Sicilia nel giugno 1862
Garibaldi di nuovo in Sicilia
per iniziare un’altra grande impresa.
Pagg. 69-70 tratte dal libro: “L’esercito dimenticato.
La lotta per la libertà e per l’indipendenza
della Sicilia dopo l’invasione del 1860”.
di Giuseppe Scianò ©
Collana Libri Storie di Sicilia
Alla fine del mese di giugno del 1862, Garibaldi venne a Palermo prendendo alloggio all’Hotel Trinacria. Voleva risolvere, da par suo, con una “spedizione” su Roma, la questione relativa allo Stato Pontificio e all’acquisizione di quei territori (Roma in testa) al Regno d’Italia.
Come già era avvenuto nel 1860, l’Eroe dei Due Mondi non agiva “motu proprio”. Aveva preso, infatti, accordi ben precisi con il suo “compare” Vittorio Emanuele II e con il Governo di Torino, allora retto dal chiacchieratissimo Urbano Rattazzi, docile strumento delle voglie e dei desideri di Vittorio Emanuele II.
Ovviamente, gli accordi erano segreti, ma i prefetti, i questori, i prefetti, i questori, i generali, i mafiosi, i carrieristi e i portaborse di tutta la Sicilia avevano, per tempo, avuto le disposizioni o le imbeccate giuste per agevolare in ogni modo la nuova impresa di Garibaldi. Di che si trattava?
Vittorio Emanuele, Garibaldi e altri nazionalisti italiani, ancora increduli per la facilità con la quale avevano conquistato e ridotto in colonia il Regno delle Due Sicilie, erano convinti che fosse giunto il momento storico per allargare, con relativa facilità, il territorio del neo-Regno d’Italia, occupando lo Stato Pontificio, difeso soltanto da poche forze armate simbolicamente prestate da alcuni Stati cattolici europei. E, in particolare, dalla Francia sulla quale, come sappiamo, regnava l’Imperatore Napoleone III, già noto per la superficialità delle proprie scelte. E che, a giudizio di Vittorio Emanuele, non sarebbe andato aldilà delle proteste formali. Il Re Sabaudo non teneva in debito come il fatto che, rispetto al 1860, molte cose erano cambiate.
Ad esempio, il Governo di Londra, sempre benevolo verso i Savoia e sempre ostile al Papa Pio IX, questa volta non intendeva sobbarcarsi in tutto e in ogni minimo dettaglio gli oneri della nuova impresa. Avrebbe soltanto dato qualche occhiata “paterna” all’impresa e qualche appoggio veramente segreto. Niente di più. Il motto di questa nuova impresa garibaldina era «Roma o morte». Sarebbe venuto fuori al momento opportuno. A Palermo il Prefetto Giorgio Pallavicino Trivulzio, intanto, si faceva in quattro per onorare il Duce dei Mille con feste, ricevimenti, manifestazioni pubbliche e private, parate militari e paramilitari a non finire. E così via.
A Palermo si trovavano anche, in vacanza, i principini di Casa Reale, Umberto e Amedeo, che si incontrarono con Garibaldi e che con lui divisero per due giorni i bagni di folla, promossi con l’aiuto di poliziotti, di picciotti di mafia e di sedicenti garibaldini in attesa di pensione o in cerca di nuove fortune. Indescrivibili e numerose le passeggiate in carrozza, le premiazioni e le manifestazioni varie, nelle quali veniva coinvolto il fior fiore della nobiltà Siciliana.
I due principini, uno dei quali, Umberto, era l’erede al trono d’Italia, fecero ufficialmente finta di non sapere niente di ciò che si andava preparando. Sostanzialmente, però, confermarono (con la loro stessa presenza e con l’esibizione di gesti di amicizia e di solidarietà verso il generale Garibaldi) che l’iniziativa, da questi promossa, era ben vista dalla Corte e dalle istituzioni in genere.
Prefettura, Comune, Provincia, uffici dello Stato e forze armate, avrebbero, quindi, compiuto al meglio il dovere di mettersi a disposizione dell’Eroe Nizzardo. Insomma, bisognava ripetere alla grande il copione messo in moto il 5 maggio del 1860, con la partenza dei Mille da Quarto.
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